“PER SOLI SETTE VOTI I BOLSCEVICHI NON CONQUISTANO IL COMUNE DI FROSINONE ALLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE DEL 24 OTTOBRE 1920”
La prima riunione del dopoguerra del Consiglio comunale di Frosinone si tenne l’8 maggio 1919 con 17 presenti mentre, tra i 13 che non avevano risposto all’appello, alcuni erano morti in guerra e non ancora sostituiti. Per tutto il primo semestre del 1919 l’Amministrazione comunale fu quasi interamente assorbita dalla gestione dei calmieri per combattere l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. E proprio su questa attività si aprì, all’inizio del mese di agosto, una profonda crisi all’interno della stessa Giunta comunale. Il 13 agosto, infatti, era stato convocato il Consiglio comunale con all’ordine del giorno le dimissioni del sindaco Giuseppe Ferrante, che era stato eletto nel corso del 1916, e degli assessori effettivi Cesare Marchioni, Walter Ceci, Francesco Bragaglia e Giovanni Fontana. Due giorni prima il Sindaco aveva indirizzato una lettera al Consiglio con cui aveva rassegnato il suo mandato assieme alla dichiarazione di “sentirsi stanco per il lavoro e le preoccupazioni che gli erano provenute dall’alta carica, alla quale era costretto a rinunciare per aver perso la collaborazione dei colleghi della Giunta comunale”. Il successivo 25 settembre i consiglieri comunali presero atto delle sue dimissioni del Sindaco e di quelle dei quattro assessori effettivi con 7 voti favorevoli, 6 contrari e 4 astenuti.
Esattamente un mese dopo, il 25 ottobre, il Consiglio comunale fu convocato per l’elezione del nuovo primo cittadino. Alla riunione parteciparono solo 16 consiglieri su 30 i quali, con 14 voti favorevoli e 2 schede bianche, elessero sindaco Alessandro Renna Iannini che aveva già ricoperto la carica dal 17 novembre 1914 al 21 agosto 1915. Se la prima esperienza da sindaco di Renna Iannini era durata qualche mese la seconda non fu più lunga di due settimane. L’8 novembre, infatti, il Consiglio comunale fu chiamato a prendere atto delle dimissioni di tutti i 16 consiglieri appartenenti a una delle due fazioni in cui era diviso il Consiglio: si trattava di Giuseppe Carboni, Michele Castaldi, Giovanni D’Ambrosi, Archimede Fanfera, Giuseppe Ferrante, Giovanni Fontana, Giulio Lattanzi, Cesare Marchioni, Camillo Minotti, Benedetto Pantanelli, Alessandro Renna Iannini, Luigi Scifelli, Andrea Spinetti, Pietro Valle, Alberto Vespasiani e Pasquale Zirizzotti. L’esito della votazione dell’8 novembre comportò lo scioglimento immediato del Consiglio comunale e l’inizio di un lungo periodo di gestione commissariale con i funzionari prefettizi Ernesto Pellegrini. fino al 5 gennaio 1920, e Domenico Milani fino alla vigilia delle elezioni amministrative fissate per il 24 ottobre del 1920.
In quelle elezioni, come scrisse il giornale dei giovani repubblicani di Frosinone, “Il Ribelle”: “Due tendenze si contendevano Palazzo Berardi: i ‘partiti estremi’ ed il cosiddetto partito dell’ordine, o Comitato Antibolscevico ‘Viva l’Italia’ o per meglio dire l’on. Marzi con il popolo e l’on. Carboni con la Banca Popolare, i negozianti e i pescecani”. Le previsioni della vigilia facevano pensare ad un successo clamoroso del Partito Socialista tanto che il giornale romano “IlLazio Socialista” aveva scritto, poco tempo prima del voto, che “La vittoriasocialista delle ultime elezioni politiche ha lasciato molto addolorati i signorotti del frusinate i quali, per consolarsi e giustificarsi, vanno ripetendo ai quattro venti che la lotta li colse di sorpresa e li trovò impreparati. Ora anelano la rivincita e, si capisce, vedono nelle prossime elezioni amministrative una buona occasione per combatterci aspramente. Da tempo sono all’opera; la borghesia agricola e bottegaia è schierata come un solo uomo contro le nostreorganizzazioni le quali, però, più imperterrite che mai, marciano sicure verso nuove battaglie e nuovi trionfi”. Il timore di una vittoria socialista aveva indotto, infatti, il deputato Carboni a dar vita a un blocco con tutte le forze antisocialiste della città, il cosiddetto “Comitato Elettorale Antibolscevico” che dette vita a una lista capeggiata dall’ing. Gaetano Cacciavillani che comprendeva, oltre ai rappresentanti liberali, anche diversi candidati nazionalisti e fascisti come Pietro Gizzi, Tullio Bommattei e Aristodemo Vona e due socialisti “riformisti”, Luigi Valchera e Filippo Sordi.
La campagna elettorale per le prime elezioni amministrative del dopoguerra fu molto accesa e contrassegnata, così come lo era stata quella delle elezioni politiche dell’anno precedente, da scontri e violenze tanto che “Il Ribelle” arrivò a scrivere che si assisteva in città a una “lotta asprissima, che dal campo amministrativo è stata portata in quello politico, lotta che nessuno mai ricorda a Frosinone. Comizi, dimostrazioni tutte le sere! - scriveva ancora il giornale - Al tricolore succedeva subito la bandiera rossa seguita dal popolo acclamante; i liberali si rinchiudevano, i popolari tacevano, i socialisti, i repubblicani facevano le loro superbe grandiose manifestazioni. E si avvicinava la domenica 24 ottobre! Tutti i caffè, le cantine chiuse: proibita la vendita di liquori e di ogni alcool… ma fin dal mattino si vedevano gli ubriachi in giro”. Alla fine la vittoria andò alla lista del “Comitato Elettorale Antibolscevico-Viva l’Italia” che superò di soli sette voti quella dei socialisti, un risultato che fu favorito dal Partito Popolare che, all’ultimo momento, aveva riversato i suoi voti sui candidati del listone “antibolscevico”. A livello di rappresentanza nel Consiglio comunale la coalizione di tutte le forze cittadine che si opponevano al Partito Socialista ebbe venti seggi mentre alla lista capeggiata dall’avvocato Marzi andarono tutti i dieci seggi spettanti alla minoranza. Per il blocco del “Comitato Antibolscevico” risultarono eletti Francesco Antonio Alviti, Pietro Antonucci, Tullio Bommattei, Gaetano Cacciavillani, Giuseppe Carfagna, Domenico Ferrante, Agostino Gallina, Pietro Gizzi, Cipriano Iorio, Mario Marini, Salvatore Minotti, Pio Patrizi, Silverio Pizzutelli, Antonio Rea, Filippo Sordi, Giuseppe Spinetti, Luigi Valchera, Umberto Vittori, Edmondo Vivoli e Aristodemo Vona. Per la lista socialista entrarono in Consiglio comunale Vittorio Antonucci, Giovanni Bracaglia, Francesco Casali, Benedetto Ceccarelli, Ilio De Bernardis, Alessandro Francazi, Domenico Marzi, Antonio Minotti, Giuseppe Minotti e Arcangelo Silvestri.
Il clima di scontro tra i sostenitori delle diverse forze politiche continuò in città ancora per giorni fino a che un neoeletto consigliere comunale socialista, il prof. Francesco Casali, fu fatto segno da tre colpi di revolver mentre, a tarda notte, rientrava nella sua abitazione in compagnia del segretario della Sezione socialista Vittorio Antonucci e del falegname Luigi Pafetti. L’autore dell’attentato, Gaetano Carboni, che era in compagnia di una “guardia investigativa” che non gli aveva impedito però di usare l’arma, prima di costituirsi fu visto recarsi nell’abitazione dell’on. Vincenzo Carboni. Pochi giorni dopo l’attentatore fu scarcerato e l’imputazione da mancato omicidio fu tramutata in “minaccia con arma”. Il 9 novembre successivo il Consiglio comunale, convocato per la nomina delSindaco, elesse l’avvocato Pietro Gizzi con 20 voti favorevoli e 9 schede bianche. Si passò, poi, alla elezione della nuova Giunta comunale che risultò composta dagli assessori effettivi Agostino Gallina, Gaetano Cacciavillani, Edmondo Vivoli e Luigi Valchera e dai supplenti Antonio Rea e Salvatore Minotti.Per tutta l’estate successiva l’Amministrazione comunale si trovò in grosse difficoltà per la cattiva gestione dei calmieri sulla vendita al minuto della carne bovina e della farina e per le difficili condizioni igieniche della città causate dal cattivo funzionamento della macchina sollevatrice dell’acqua potabile e, anche, dai disservizi della società che gestiva l’illuminazione pubblica.La Giunta “antibolscevica” dovette, quindi, fronteggiare non solo gli attacchi dell’opposizione socialista e i forti malumori all’interno della stessa maggioranza ma, soprattutto, le continue proteste di una popolazione esasperata che, in più di un’occasione, dette vita a veri e propri tumulti in Piazza della Libertà e anche sulle scalinate che portavano all’aula consiliare di Palazzo Berardi.
I problemi interni alla coalizione di maggioranza - rivelarono in quei giorni alcuni giornali regionali tra cui “Il Paese” - erano dovutisoprattutto agli scontri tra consiglieri interessati alla scelta del luogo dove costruire l’Edificio scolastico comunale e all’esplosione di uno scandalo edilizio che riguardava il consigliere Pietro Antonucci, “direttore delle fornaci e la più grande colonna della Lega Antibolscevica”, che aveva allargato la sua fabbrica di laterizi sul tracciato di una strada comunale nei pressi del bivio di Ceccano. La Giunta comunale non resse a lungo quella situazione e il 31 ottobre il Sindaco comunicò al Consiglio le dimissioni sue e di tutti gli Assessori. L’avv. Gizzi si limitò a leggere un documento, approvato in Giunta nei giorni precedenti, che annunciava le dimissioni dell’intero esecutivo “in considerazione delle vivaci critiche ripetutamente rivolte da alcuni consiglieri all’indirizzo di tutta l’Amministrazione, ma più specificatamente dell’Assessore ai Lavori pubblici, che hanno determinato quest’ultimo a presentare le sue irrevocabili dimissioni”. Prese la parola, subito dopo, il consigliere di maggioranza Francescantonio Alviti per criticare duramente l’assessore ai Lavori pubblici, Gaetano Cacciavillani, per i disservizi nell’erogazione della luce elettrica e della Macchina della Fontana per l’approvvigionamento dell’acqua potabile. Alviti, dopo aver accennato anche al deplorevole stato delle strade, delle fogne e del cimitero cittadino, dove molte tombe si allagavano periodicamente, propose l’accettazione delle sole dimissioni dell’assessore Cacciavillani ribadendo la sua fiducia nel Sindaco e negli altri Assessori. Domenico Marzi, a nome del gruppo socialista, dichiarò, invece, di essere per l’accoglimento delle dimissioni tanto del Sindaco quanto della Giunta, sia per ragioni politiche sia per la mancata attuazione del programma a suo tempo presentato dall’Amministrazione. Alla fine della seduta mentre le dimissioni del Sindaco vennero respinte con 16 voti contro 8 e un astenuto, quelle dell’intera Giunta furono accettate da 18 consiglieri con un solo voto contrario e 6 astenuti. Qualche settimana dopo, il 28 novembre, venne eletta la nuova Giunta comunale con la riconferma degli assessori effettivi Gallina, Vivoli e Valchera e dei supplenti Rea e Minotti mentre il quarto assessorato effettivo andò ad Alviti che prese il posto di Cacciavillani. Il socialista riformista Luigi Valchera, però, fece conoscere immediatamente la sua indisponibilità a continuare a collaborare con il “Comitato Antibolscevico” e rassegnò le sue dimissioni per essere, poi, sostituito nella carica dal consigliere Mario Marini.
Qualche settimana dopo, precisamente il 29 gennaio 1923, apparve, inaspettatamente, sui muri della città un manifesto a firma del sindaco Pietro Gizzi con il quale lo stesso annunciava la decisione di rassegnare le dimissioni dalla carica di primo cittadino. Così era scritto nel manifesto indirizzato a tutti i cittadini di Frosinone: “I nuovi eventi politici maturati anche nella nostra città, nonché particolari condizioni di famiglia mi impongono di rassegnare inesorabilmente le mie dimissioni da Sindaco”. Lo sconcerto nella città fu enorme anche perché non venivano chiariti i veri motivi che avevano portato il Sindaco a quella decisione. Cominciarono a circolare nella città varie ipotesi fra le quali, la più plausibile, rimandava a quanto era successo a Frosinone il giorno della “Grande adunata fascista” del 15 ottobre dell’anno precedente. Quel giorno, infatti, gli squadristi di Frosinone e di altri centri del circondario avevano assalito per ben due volte i locali di proprietà del Comune, detti di S. Francesco, che ospitavano da anni la sede della Camera del Lavoro con l’assenso dell’Amministrazione comunale. Il secondo assalto di quella giornata, in particolare, aveva portato alla completa devastazione dei locali e l’accaduto aveva spinto il sindaco Gizzi ad inviare, il 9 dicembre, un telegramma al Sottosegretario di Stato all’Interno in cui si lamentava per “la violenza inutile compiuta locale sezione fascista colla invasione locali di proprietà questo municipio adibiti a Coop. e Camera del Lavoro. Elevo tale protesta con l’amarezza di chi fervidamente secondato seguito movimento fascista come rigeneratore vita pubblica italiana”. Lo stesso giorno partì da Frosinone un telegramma del Direttorio fascista di Frosinone, direttamente indirizzato a Mussolini, in cui si contestava l’iniziativa del primo cittadino: “La protesta sindaco Frosinone - si affermava nella comunicazione - non è coerente suo atteggiamento precedente. Atto compiuto sezione fascista risponde a disciplina e senso di responsabilità”. La questione dei locali comunali devastati risultò effettivamente la causa della profonda frattura fra l’avv. Gizzi e il fascio locale.
Il successivo 15 febbraio si riunì il Consiglio comunale con all’ordine del giorno le dimissioni di Pietro Gizzi che, però, non si presentò insieme ad altri 12 consiglieri. In apertura dei lavori il segretario comunale Francesco Zallocco dette lettura di una comunicazione del Sindaco, datata 29 gennaio, diretta all’assessore anziano Alviti con la quale confermava la sua decisione. Nei giorni successivi anche i 16 consiglieri nazionalisti e fascisti presentarono le loro dimissioni e, visto che da tempo i dieci eletti socialisti e comunisti avevano lasciato il Consiglio comunale, ne restarono in carica solo quattro per cui il Consiglio venne sciolto. La impraticabilità di una qualsiasi soluzione positiva alla crisi amministrativa spinse allora la Prefettura di Roma a nominare, a partire dal 17 aprile 1923, il funzionario Ernesto Pellegrini quale Regio commissario prefettizio al Comune di Frosinone. Dopo di lui, fino alla fine del 1926, si susseguirono diversi altri commissari: Antonio Turriziani, Raffaello Palladino, Alberto Ghislanzoni, Umberto Velli, Steno Pelotti e ancora Antonio Turriziani che il 2 gennaio 1927 divenne il primo podestà di Frosinone. A seguito delle sue dimissioni (17 luglio 1930) e fino al mese di luglio del 1931 il Comune fu di nuovo commissariato e la sua gestione venne affidata ai funzionari prefettizi Pietro Chiaratti, Giovanni De Contini e Ulrico Isernia. Il 23 giugno 1931 con la nomina a podestà dell’avvocato Camillo Bracaglia si torna, momentaneamente, alla normalità. Ma solo fino al 4 luglio 1934 quando a seguito delle dimissioni di Bracaglia subentrò dapprima il commissario prefettizio Arturo Rota (20 luglio 1934-12 settembre 1935) e, poi, dal 13 settembre 1935 al 25 giugno 1939 dal nuovo podestà l’avvocato Giuseppe Ferrante. A seguire, fino al 5 marzo 1940 i commissari Egisto Ferretti e Giuseppe Zacchi e, quindi, Pietro Gizzi, l’ultimo podestà che restò in carica fino al 28 luglio 1943.
Per circa venti anni i frusinati non erano stati più chiamati ad eleggere il proprio sindaco e i consiglieri comunali. Le “leggi fascistissime” del 1926 avevano affidato alle gerarchie del regime il diritto di nomina dei podestà che concentravano su di loro l’intera responsabilità dell’amministrazione cittadina. A differenza di quanto si è portati a pensare il sistema del “partito unico” introdotto dal fascismo non garantì alcuna stabilità ai Comuni italiani e a Frosinone, in particolare, si avvicendarono alla guida del municipio in quel ventennio circa 20 tra podestà e commissari prefettizi. Il fenomeno va ricercato negli aspri contrasti d’interesse fra le varie fazioni del fascismo locale con denunce, spesso anonime, di illegalità e affarismo nei confronti del podestà di turno. Fu molto evidente come alle battaglie elettorali che dal 1870 avevano visto scontrarsi uomini e partiti di varie ideologie e posizioni politiche si era sostituita, tra il 1923 e il 1943, una lotta politica tutta interna alle strutture del regime per il predominio sull’amministrazione cittadina.
AGLI AMICI LETTORI: SI CONCLUDE COSI’ QUESTA SERIE DI “FROSINONE TRA 800 E 9OO”
GRAZIE PER L’ATTENZIONE.
Maurizio Federico